sabato 16 gennaio 2016

Michelangelo

Il Giudizio Universale ( quarte parte)
( L'eroica 1941 di Ettore Cozzani )

La vendetta di Michelangelo


Michelangelo


aggirnata al 1 marzo 2016


MICHELANGELO E L'ODIATO PIETRO L'ARETINO



Pietro l'Aretino ( Arezzo, 20 aprile 1492- Venezia, 21 ottobre 1556 ).Poeta , scrittore, drammaturgo Italiano.Conosciuto principalmente per i suoi scritti dal contenuto licenzioso (almeno per il periodo),con sonetti lussuriosi, dubbi d'amore e, opere contenenti testi religiosi. Benvoluto nell'ambiente cardinalizio che a lungo frequentò. Dell'infanzia dell'Aretino si sà solo che nasce nella notte tra il 19 ad il 20 aprile del 1492, frutto di una relazione, fra un povero calzolaio di nome Luca Del Buta ed una cortigiana, Margherita dei Bonci, detta Tata, modella scolpita e dipinta da parecchi artisti del tempo.Non volle mai far scoprire il suo vero nome e le sue origini, in segno di disconoscimento dei suoi natali. Tuttavia gli piaceva definirsi figlio di cortigiana con anima di re.
Dettaglio del Giudizio Universale Biagio da Cesena
 Ecco viene l'ora che tutta questa tempesta di torture lo coglie a un tale culmine di disperazione che tenta di sprofondarsi lui nella morte. In quel suo arrampicarsi per le impalcature è caduto giù da un ponte e s'è malamente ferito :forse s'è slogato e spezzato le ossa di un'anca. Si ritira in casa, spranga porte e finestre, rifiuta qualsiasi soccorso: per giorni muggì di spasmi, solo, digiuno, e senza cure: vuol veder se non trovi finalmente la strada per uscire da questo inferno della vita; ed è salvo ai capolavori che ancora verranno, soltanto perché  un medico suo amico e devoto, Bacci Rontini, è riuscito per anditi segreti a penetrare di sorpresa nel suo covo, e a rianimarlo con la sua affettuosa bontà. Proprio in quel momento un mansardiero s'è messo a capo della muta che s'avventava alle carni di Michelangelo, impegnato nel più grande compito della sua vita. E' Pietro l'Aretino. Robustissimo e scaltro ingenio, ma figura tanto spregevole ch'io vorrei cancellare dalla storia italiana, sebbene riconosca la bellezza di stile e di lingua di certe sue pagine magistrali, -s'era offeso per la non curanza di Michelangelo. Non c'è come l'ambizione in un vanitoso, che possa renderlo feroce; non c'è come la perdita d'un vantaggio in un profittatore, che possa  staffilare la ferocia fin a renderla diabolica. L'Aretino viveva d'una fama che s'era fatto agganciandosi ai poteri e ai grandi: procacciandosi o fingendo di posseder amicizie altissime, s'illuminava dei riflessi di tutte le glorie principesche, ecclesiastiche, artistiche, tra cui gli riuscisse d'intrufolarsi; arriverà persino a comporre un vero e proprio triunvirato col Sansovino e col Tiziano, per farsi strada. Ma Michelangelo egli non riusciva a dominarlo. Il Michelangelo non lo combatteva, non recalcitrava i suoi approcci, non adoperava con lui parole gravi; ma lo lasciava ribollire nella sua fangaia con tutti i suoi simili, e si isolava. E l'Aretino sudava freddo dall'ira di non poter ostentare qualche documento decisivo dell'amicizia di colui che era ormai reputato il più grande artista, forse il più grande  e miracoloso del suo tempo. Quando seppe che il Buonarroti si accingeva a dipingere il Giudizio Universale, pensò che fosse giunta la sua ora. Che cosa poteva sapere un pittore delle cose sublimi e complicate che non son necessarie all'interpretazione del grande evento profetato nei libri santi? Lui sì, sapeva; lui sì poteva suggerire. Egli scrisse a Michelangelo una lettera un po' caotica se si vuole, ma ingegnosa e dotta, in cui l'artista avrebbe potuto trovare un vero e proprio schema corredato di tutte le conoscenze e idee religiose e filosofiche indispensabili alla composizione. E attese; ormai certo di non poter vantarsi che l'opera del Buonarroti era principalmente creazione sua: l'altro non era stato che l'esecutore, traducendola in forme accessibili al volgo. Forse, anzi non attese nemmeno, e lanciò, con le copie della sua lettera, come noi oggi faremmo con un articolo di giornale, la grande notizia. Ma da Michelangelo non gli venne che una breve risposta piena di rispetto, e quasi reverenziale, in cui l'artista si scusava di non poter  approfittare del magnifico progetto dell'Aretino, perché ormai aveva già definito l'opera in ogni particolare. L'Aretino allividì d'ira impotente: e allora tutta la malignità, la perversità, la doppiezza del suo temperamento proruppero, e Roma fu piena delle sue insinuazioni, le quali, inventate da uno scrittore di tanto ingegno ed una così raffinata scaltrezza e sicura praticità, erano pericolosissime: non soltanto disonoravano Michelangelo come uomo (perché affermavano che in realtà egli aveva truffato gli eredi di Giulio II), non soltanto lo avvilivano come artista (perché propalavano, per bocca d'uno che era creduto un esperto, che la grande pittura era roba da "stufe e da osteria"), ma mettevano il Buonarroti al rischio di un processo d'Inquisizione (perché, in un periodo di così sospettosa reazione cattolica, formulava l'accusa che lo spirito di giudizio fosse apertamente luterano. E il cinico ribellismo ha avuto anche, difronte hai poteri, l'ingenuità di lasciare un documento di queste sue malignità, elencandole nella lettera che nel novembre del 1545 ha scritto al Buonarroti, prima invelenendo contro di lui e accusandolo persino di sensualità anormale, e poi tentando di rientrare nelle sue grazie. Come se tutto questo non bastasse, ecco in Roma i timorati e gli inetti a far coro all'Aretino, e a gridare che la pittura di Michelangelo, con tutti quei nudi, nell'impostazione più svergognata, era non solo impura, ma addirittura oscena. Tra questi il più pericoloso era il Maestro di cerimonia del Papa Paolo III, Biagio da Cesena il quale di continuo mormorava al pontefice che egli si sarebbe disonorato se ne avesse lasciato compiere una simile profanazione della Sistina. E allora venne per Michelangelo l'ora dantesca; l'ora in cui  l'artista sente d'avere una forza, una potenza che nessun umano può toglierli o sminuire, se non uccida l'uomo che abbia creato, o non distrugga  la sua creazione. Michelangelo sentì che col suo pennello poteva inchiodare ad un'onta eterna  i suoi stessi carnefici, come Dante li aveva inchiodati col tridente nella sua terzina. Tanto, non dipingeva il Giudizio Universale?
DANTE ALIGHIERI
  Era dunque l'ora  della resa dei conti di tutti e per sempre. E allora a Minosse    (egli che odiava il ritratto, perché spregiava il contingente, e nel bello e nel brutto cercava soltanto il tipo, ossia l'assoluto) ha dato la faccia di Biagio da Cesena e lo ha giudicato per i secoli, un asino, attribuendogli, come agli altri demoni, ma molto più evidenti, due enormi orecchie ritte e appuntite, a raccogliere le calunnie; e come lussurioso (che abbia visto libidine dov'era soltanto purità, e - come il pittore ha scritto d'altro - "sia fabbricato un Michelangelo nel cuore, di quella pasta ch'è à dentro") facendolo mordere gli inguini, con grottesco suggello del giudizio, del serpente. Ma Michelangelo ha raggiunto l'estremo della sua forza e violenza giustiziera, dando al San Bartolomeo, che, ai piedi di Gesù, mostra gli strumenti del suo martirio, la faccia di Pietro l'Aretino e disegnando nella pelle che il santo tiene penzoloni alla sua mano la sua propria faccia di martire devastato dalla sofferenza e dal corruccio. Ha così gridato a noi, che di lontano possiamo ormai, senza che gliene vengano nuove persecuzioni, capire tutta la sua tragedia: " mentre io creavo il mio capolavoro, in un trasporto di esaltazioni e di patimenti, costui m'ha scuoiato vivo".

Particolare del Giudizio Universale
  S. Bartolomeo che mostra la sua pelle

Dietro il santo, nella figura che solleva sulla grandiosa spalla Bartolomeo la sola testa e il gesto delle mani preganti, Michelangelo ha dipinto il suo fedelissimo e tanto amato servo Francesco Amadori da Urbino?

Francesco Amadori da Urbino


Urbino
Nato da Bernardino a Casteldurante, oggi Urbino, fu dal 1530 fino alla morte domestico e aiutante di Michelangelo il quale ne ricambierà con l'affetto fortissimo attestato della lettere, nelle quali piange la perdita di quel ''valente uomo, pieno di lealtà'' definendolo ''rarissimo e fedele'', e dal commosso ricordo di un sonetto al Vescovo Beccadelli Michelangelo ne esaudì anzi l'estrema volontà, curando da padrino e tutore i figli, e la vedova Cornelia Colonelli.

Ma Amadori, è morto nel 1555, quando ormai da quattordici anni il Giudizio era scoperto. Possiamo accettare serenamente l'idea, che l'artista l'abbia messo, senz'altra necessità che il suo amore, quand'era ancora in vita, nella severa composizione? Abbiamo visto quale scatto della sua disperazione, l'abbia indotto a far apparire nella pittura la maschera dell'Aretino e di Biagio, e se stesso: una simile necessità non c'era per Francesco. E bisogna anche tenere conto che, dipingendo lì, nel mezzo della composizione, riconoscibile, il suo notissimo aiuto, egli avrebbe agevolato gli osservatori a ravvisare la sua propria effige. E questo egli non voleva: s'era anzi nascosto così bene: che per quattro secoli l'anno cercato e non lo hanno trovato. S'era nascosto con un tratto di singolare abilità tecnica, facendo divergere la maschera, pendente della pelle di San Bartolomeo, in modo che mirasse verso noi, mentre tutte le altre figure, mirando a Cristo, o ai risorgenti, o ai ribelli, o ai dannati, distraggono il nostro occhio da questo punto, nonostante che sia, drammaticamente il fulcro della composizione. Michelangelo ha voluto punire l'Aretino: in modo terribile; ma pubblicare la sentenza dopo, quando i posteri l'avessero scoperto, e  il velenoso libellista non avesse potuto più nuocergli: chè di questa timidezza e di questa temerarietà è impastato il temperamento di Michelangelo, il quale corre sempre in furore sul crinale, tra abissi di umanità e d'orgoglio.

Il nudo in Michelangelo

Prima di cominciare l'analisi del Giudizio Universale, bisogna stabilire un fatto su cui s'è scivolato, perdendo di vista il fulcro della valutazione dell'opera. La grande pittura noi non l'abbiamo più come Michelangelo l'ha
CAPPELLA SISTINA E' IL SANTUARIO DELLA TEOLOGIA DEL CORPO UMANO ( K. WOJTYLA )
creata. Michelangelo l'aveva pensata e attuata in quel suo modo sublime ( oserei dire naturalistico e mistico  insieme ) di giudicare il nudo umano, che è alla base della sua concezione della vita umana ed universale,e  quindi alla base  della scultura che è l'arte sua propria, e della pittura che in lui non è se non trasportazione della plastica tangibile sul piano d'una plastica solamente visibile.Come il saggio antico, egli avrebbe potuto: ''L'uomo è la misura di tutte le cose''. per lui cioè la forma umana nella sua precisa, elastica e raggiante nudità, non è soltanto la creazione umana e più alta e più perfetta di Dio;-ma è anche lo strumento con cui Dio ha voluto che il cosmo prendesse coscienza di sé e una espressione comprensibile e trasmissibile: tutte le passioni umane e tutti i pensieri umani,come analisi o come sintesi del dramma e del significato della vita universa, si manifestano attraverso il nudo corpo umano, del maschi e della femmina, il quale non è soltanto struttura, armonia e funzione di esaltante potenza, ma è anche manifestazione, del palpito e respiro al movimento, del gesto allo sguardo, dalla parola al cuore, di tutto ciò  che nella natura possiamo capire e risolvere. Perciò il grandinar di figure nell' uragano del Giudizio Universale, Michelangelo l'aveva concepito e dipinto in totale lirica nudità: la nudità per lui è sacra, appunto perché egli la sente religiosamente, come opere diretta nelle mani di Dio; e perché alla nudità non ha mai congiunto la più fugace sensualità o un riverbero di un pensiero meno che casto. Sacrilegio invece e impuro è per lui chi proprio quella nudità copre, non solo nascondendo, ma interrompendo e deformando la stupenda musica dei volumi, dei piani e delle linee.
E questo valga anche a spazzare via una volta per sempre tutti gli ignobili sospetti che qualche spirito tarato e corroso ha gettati sull'amicizia e l'ammirazione, simile in tutto a un amore, di Michelangelo per i più bei giovani umani che ha incontrati nella sua vita, e per le trascuranze che egli avrebbe avuto per le donne. A proposito di questo bisogna pensare ch'egli era un temperamento riservato, pieno d'aspri pudori, chiuso nell'ispido orgoglio della sua grandezza e solitudine, e non c'è venuto di certo a raccontare i sui segreti più intimi.
MICHELANGELO, IGNUDO


Anzi ha distrutto persino montagne di studi preparatori delle sue opere, perchè  non voleva che qualcuno mettesse gli occhi e le mani nel mistero della voluttà e del nascimento delle idee artistiche (che sono ancora più sensuali  nella loro spiritualità della voluttà e della gestazione umana, e perciò non si possono e non si deve rivelare ai profani e agli estranei).








da aggiornare




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