domenica 31 gennaio 2016

PARADOSSI NELLA STORIA DELLA CRISTIANITA'

NON SEMPRE AI CONCILII CI SI  CONCILIAVA

Il Concilio di Calcedonia che si tenne sotto l'impero  Marziano. Nel disegno allegorico come si può notare, l'Imperatore domina la scena, al centro, sotto un baldacchino. La connessione fra la Chiesa e il potere politico era allora estremamente intima e inscindibile. Solo più tardi si produsse  la necessaria diversificazione.

A Efeso dovette intervenire la polizia imperiale con metodi così ruvidi che un santo patriarca ne morì. A Lione apparve tra gli invitati anche il Gran Kan della Mongolia. A Basilea venne eletto Papa il Duca Amedeo VIII di Savoia un laico padre di numerosa famiglia.
A Trento un vescovo napoletano, nel calore del contrasto strappò la barba a un prelato orientale.
E
  LA CHIESA RIFLETTEVA LE PASSIONI DEL SECOLO
 
 ( PRIMA PARTE )

 CHI VOGLIA misurare l'importanza storica delle assemblee della Chiesa, deve risalire alle origini stesse del cristianesimo. Nell'anno 49, a Gerusalemme.

 Gli Apostoli e i loro collaboratori immediati si trovarono riuniti. Per la giovane Chiesa, si poneva una questione molto grave: tutti gli  Apostoli erano Ebrei ed agli Ebrei loro connazionali essi avevano insegnato la "Buona Novella". Ma un apostolo nuovo venuto, Paolo, aveva ritenuto dell'insegnamento del Maestro la parte che ordinava di portare il Vangelo a tutta la terra; ciò che voleva dire ammettere nella Chiesa di Cristo tutti i pagani che lo desideravano. Era giusto agire così?
Oppure  bisognava imporre a tutti coloro che volevano diventare cristiani di sottomettersi prima alle legge ebraica e alle sue prescrizioni disciplinari? Grave domanda. Gli Apostoli non ci vedevano molto chiaro, e per tanto decisero di convocare Paolo ad un'assemblea dei capi della Chiesa perchè prendessero una decisione in comune. 
Il concilio di Trento che condannò il protestantesimo e fu segnato, nella sua lunghissima evoluzione, anche da episodi drammatici. Ad esso fu legata, fra l'altro, la denominazione di quel " Castello  del Buon Consiglio" nel quale furono trucidati Battisti e Damiano Chiesa, martiri dell'Irredentismo.
Così ebbero inizio le prime assisi plenarie della cristianità, riportate dagli atti degli Apostoli, Paolo e il suo amico Barnaba vennero a conferire  con i capi del giovane movimento e dimostrarono che se si fosse preteso di imporre ai pagani le usanze ebraiche- fra le altre la poco gradita circoncisione- le conversioni sarebbero state rare; e Gesù non aveva mai ordinato simili pratiche. La tesi di Paolo e di Barnaba ebbe il sopravvento. Benchè non si sia mai fatto figurare quest'assemblea di Gerusalemme nella lista dei Concili, non fu quello il primo Concilio di una lunga serie?


(Il brigantaggio di Efeso)


Una ricostruzione del secondo Concilio di Nicea nel quale fra l'altro venne confermato, sotto il pontificato di papa Adriano, il culto della sacra immagine. Ovviamente, la partecipazione dei porporati ai Concilii di quel periodo era molto più ridotta dei concilii più recenti.
In misura del suo sviluppo, il Cristianesimo tese a ricalcare le sue istituzioni amministrative su quelle dell'Impero Romano; si tennero dei "concili provinciali " o " Sidoni provinciali", fin dagli inizi del terzo secolo, indubbiamente analoghi alle assemblee provinciali di Roma. L'allargamento secondo le dimensioni del mondo  fu opera dell'Imperatore Costantino. Quando quell'Imperatore stabilì il suo dominio su tutto l'Impero, si credette in dovere di allontanare dal Cristianesimo la grave minaccia che pesava su di esso: quella dell'eresia ariana. Ario era molto influente; i suoi seguaci, che come lui rifiutavano di credere alla divinità di Gesù vedendo in lui soltanto un uomo esemplare, cresceva di anno in anno. Per venirne a capo , Costantino convocò nel trecentoventicinque a Nicea, una riunione di tutti i Vescovi della Chiesa universale. Dal greco " ecumenico" quello fu il primo " concilio ecumenico" dal quale uscì il testo che doveva essere la regola di fede dei Cristiani fino hai giorni di oggi: il Simbolo di Nicea. Così si seguì la regola di tenere "Concili ecumenici" quando si trovava di regolare una grave questione dogmatica. Per esempio, quando bisognò decidere se la Santa Vergine Maria avesse il diritto al titolo di " Madre di Dio ", e non era pura e semplice idolatria. Da quello di Nicea nel trecentoventicinque a quello di Costantinopoli nell'ottocentosessantanove, vennero tenuti otto concili ecumenici che, bisogna dirlo, furono sempre molto agitati; si batteva su di una frase, una parola, perfino su di una lettera. Questi concili ecumenici d'Oriente, non uguagliarono in vivacità i concili provinciali che continuarono ad essere tenuti, e alcuni dei quali dovevano restare celebri per lo spirito battagliero dimostratovi dai teologi. Come quello del quattrocentotrentuno, riunito ad Efeso, si discusse se in Gesù Cristo fossero una o due nature. I prelati parlarono fino all'estremo, si destituirono scambievolmente, poi vennero alle mani, chiamarono la polizia imperiale che intervenne con una tale delicatezza che il santo patriarca Flaviano di Costantinopoli, morì per le percosse ricevute. Questo fece scandalo e l'episodio rimase celebre sotto il nome di "brigantaggio di Efeso ". Quando, dopo il millecinquantasei, la chiesa greca si separò da Roma, l'usanza di tenere i concili ecumenici, fu ripresa dall'occidente, ogni volta che si trovava di uscire da una grave crisi, di suggellare l'unione della cristianità, di una decisione che impegnava l'avvenire. I sette concili ecumenici che ebbero luogo dal millecentoventitrè al milletrecentododici furono: quattro tenuti a Roma, nel Laterano, che allora era la residenza dei Papi; tre in Francia, due a Lione e uno a Vienna, nel Delfinato. Il più strano di questi sette concili della cristianità fu quello di Lione nel milleduecentosettantaquattro. Per la prima volta, dallo scisma del millecinquantasei che aveva spezzato in due la Chiesa, si parlò sinceramente del ritorno dell'unità. Vi presero parte cinquecento padri, con un Re - quello di Aragona - e i rappresentanti di tutti gli Stati che allora contavano qualcosa. L'Imperatore di Costantinopoli Michele Paleologo, il cattolico di Armenia e anche il Gran Can dei Mongoli, vi furono invitati. Antenato del nostro futuro concilio, quel concilio di Lione poco mancò che divenisse il concilio dell'unità se l'episcopato greco non si fosse messo risolutamente contro le buone intenzioni dei padri. 
                          Fine prima parte.... 
SI PARLERA' DEL RITORNO ALL'UNITA' DELLA CHIESA



 

 












IL GIORNO DELLA MEMORIA TERZA ED ULTIMA PARTE

Il signor Alios andava troppo spesso a nozze con la morte.

La vita di Alois, l'uomo dalla romanzesca origine, che doveva dare i natali al dittatore nazista fu segnata dalla tragedia. La nascita di Adolfo Hitler, bambino dalla faccia rotonda, fu preceduta da un corteo di piccoli fantasmi, i molti fratelli e sorelle venute al mondo prima di lui e puntualmente respinte dalla vita come se la sorte, consapevole del tremendo evento di sangue della
progenie del signor Alois,  fosse stata colta da succesivi ripensamenti.
Alois, piccolo funzionario delle dogane, si sposa infatti una prima volta nel 1864 con Anna Glas-Horer, più vecchia di lui di quattordici anni, figlia di un suo anziano collega e, soprattutto provvista di una appetitosa dote.  
Anna  era una donna malata e morì senza figli pochi anni dopo, stroncata dal male dalla signora delle Camelie.
Il signor Alois  non ama la solitudine  e un mese dopo la morte della  moglie  sposa una serva d'albergo, Franziska Matzelsberger, dalla quale avava avuto un figlio chiamato come il padre, Alois. La morte della prima moglie del doganiere è arrivata appena in tempo per togliere  d'imbarazzo la seconda che infatti tre mesi dopo la cerimonia, mette al mondo una figlia, Angela. Un anno  dopo la donna, che aveva ventiquattro anni meno del marito, morì di quella tubercolosi che aveva stroncato la sua rivale.
Il destino si accaniva contro la possibilità  che Alois avesse una propria discendenza, quasi per una oscura premonizione. Ma sei mesi dopo questo secondo lutto, ormai quarantaseienne, egli si risposò nel 1885. Se mai ha avuto delle inlusioni romantiche oggi non ne  ha proprio più perchè la cerimonia si celebra infatti  il  mattino, e nel pomeriggio egli è già in ufficio. Ha sposato Clara Poelzel, sua parente prossima, cugina anzi, secondo il registro parrocchiale. Ma la pesante differenza d'età - lei ha ventitrè anni di meno - aveva fatto si che Clara avesse chiamato fino a quel momento il futuro marito "mio zio". Per sposarsi hanno dovuto chiedere la dispensa del Vaticano. Se è vero che il signor Alois Hiedler non aveva la virtù della fedeltà, è altrettanto vero che aveva una precisa inclinazione circa l'estrazione sociale delle sue mogli: Clara, infatti, è una cameriera d'albergo a Vienna e, neanche dirlo, gli regala un figlio quattro mesi dopo il matrimonio. Questa provvidenziale puntualità delle mogli e nella nascita dei figli legittimi che diversamente sarebbero stati bastardi avrebbero potuto interessare Sherlok Holmes. Ma il destino del signor Alois ebbe proprio questa sbalorditiva casualità, senza altri interventi più sospetti: la malattia del suo secolo si portava via le mogli che avrebbero fatto ombra all'onore delle sue future spose. Non aveva neppure il tempo di piangerle, quelle povere donne, perchè già stava alzando il boccale di birra per brindare alla salute di un neonato. Clara oltre al maschietto, gli diede una figlia, ma morirono entrambi ancora bambini. Nel 1889 quando il doganiere ha già cinquantatrè anni, nasce un terzo figlio al quale viene messo il nome di Adolfo : avvenimento fuggevole e senza alcuna impronta, nella vita disgraziata del piccolo statale austriaco, la nascita di un figlio. Ne nascerà un'altro che morirà a sei anni. In quella rabbrividente roulette della vita che turbinava nella sfortunata casa di Alois Hiedler (o Hitler, secondo il definitivo patronimico che avrebbe assunto il figlio), soltanto due figli azzeccarono per così dire, l'en plein e si salvarono: Paula e Adolfo. Di cinque figli furono i soli a sopravvivere. Ma nessuno poteva immaginare allora quale tributo di vite umane sarebbe costata la gracile vitalità di Adolfo Hitler. Tutto quello che rimane di questa malinconica storia di famiglia è la costatazione paradossale che il supremo, il profeta del pangermanesimo, l'irriducibile razzista venne di lì. Una famiglia di origine contadina che tuttavia non conservò neppure quella sua caratterizzazione proletaria che avrebbe potuto, in qualche modo, costituire un precedente razziale per Hitler attraverso l'inevitabile retorica della terra e della genuinità contadina. Il signor Alois indossò, infatti, la casacca senza alamari del gabelliere, indulse agli amori corrivi,  fu un dongiovanni al livello delle sguattere. Nella amnanesi dell'uomo che voleva distillare la razza eletta attraverso i più rigorosi incroci di caratteri germanici si ritrova con paurosa frequenza il bacillo di Koch. Più tardi la sua cartella diagnostica si arricchirà anche della spirochetta pallida. In età giovanile, infatti, Hitler verrà colpito da una malattia venerea alla quale qualcuno ricollega le maggiori accentuazioni della sua esaltazione. Questa, dunque, fu la grigia galleria d'antenati del Furer e questa la squallida storia della parte più anonima della sua vita. Quando Nietszche pensava a Zarathustra, la famiglia ideale che il dittatore avrebbe sempre tenuto davanti agli occhi, non vagheggiava certo il piccolo nevrotico anonimo austriaco di Linz.
PROSSIMAMENTE ALTRE NOVITA' 

giovedì 28 gennaio 2016

IL GIORNO DELLA MEMORIA #SECONDA PARTE

GLI HITLER ABBONDANO SOPRATTUTTO IN QUELLA REGIONE APERTA  AI VENTI DI TUTTE LE INVASIONI.

Le invasioni di tutte le scorribande e gli insediamenti slavi e germanici, che si trovano a nord di Linz, tra il Danubio e la Boemia e la Moravia, paesi di contadini poveri dal confuso ceppo genealogico. Gmuund e Zwettl, due borghi di duemilacinquecento-tremila abitanti secondo il censimento del 1880, sono i due centri nei quali, dopo il 1400, si ritrova la più densa concentrazione degli Hitler. E' vero che tra gli ascendenti del Furer si riconoscono dei cognomi di sicura origine germanica, come gli Neusgschwander, Goschl, Schicklgruber, Hagen, ecc..., ma si tratta di cognomi correnti di prove famigliari contadine che si ritrovano nelle cronache di quelle disperate rivolte sociali di servi della gleba che precedettero la formazione dello stato tedesco. Ecco invece far capolino tra gli ascendenti materni più di una volta, il nome di Wally, di origine Serbo-Croata. E a conferma di questo imbarazzante precendente ecco ancora quella corrente di antropologi o più semplicemente di fisionomisti i quali ritengono di individuare in Adolfo Hitler dei caratteri tipici slavi. Tra i Boemi che vivono a Vienna si possono incontrare molti approssimativi Adolf Hitler. Pomelli piuttosto sanguigni, occhi di un blu pallido dallo sguardo fisso, fronte un pò sfuggente, è stato osservato che il viso ossuto del Furer sembra in verità più slavo che germanico senza che esso abbia per questo in alcun grado, quello che si chiama comunemente "il fascino slavo". Il proffessor Juliuis Bonn ha rilevato in Adolfo Hitler dei tratti frequenti tra quei piccoli mercanti sloveni che percorrono l'Austria trasportando nella loro gerla oggetti di ogni genere. Li chiamano "mercanti di trappole".

mercoledì 27 gennaio 2016

( IL GIORNO DELLA MEMORIA ) HITLER per caso, non era un EBREO?

 UNA SCONCERTANTE IPOTESI CHE SAREBBE SUFFRAGATA DALLA GENEALOGIA 
DEL DITTATORE



Suo nonno che era al servizio di una facoltosa famiglia, avrebbe commesso un fallo con il figlio dei padroni. Ma gli etnologi vedono anche nel tipo antropologico del fondatore del nazismo, così lontana dall'ideale modello germanico, le caratteristiche dello slavo. Il destino avrebbe dunque giocato un tiro così beffardo al teorico della razza eletta e del "popolo signore "?

Non era alto, aveva i capelli neri e un paio di baffetti color del carbone che ne rendevano estremamente facile l'imitazione all'ebreo Charlie Chaplin. Fu, sotto ogni profilo, il più fantastico teorico della superiorità degli umani dai capelli biondi e dagli occhi azzurri su ogni altro tipo antropologico.
Ma lui, Adolfo Hitler, era il più lontano possibile da quel modello ideale; era un austriaco, figlio cioè di una terra trascorsa da molte invasioni, comprese quelle di popoli meridionali, ma se tutto questo non bastasse, il suo albero genealogico affonda le radici in una terra di incerte composizioni.
Nel suo sangue forse scorre una componente ebraica tutt'altro che lontana e tutt'altro che trascurabile per un uomo che chiedeva ad ognuno della SS di accertare la razza dei propri antenati risalendo fino alla quinta generazione. Questa sbalorditiva rivelazione è venuta in luce non tanto per la ricerca di un etnologo ma attraverso una normale, accurata inchiesta giornalistica condotta negli archivi della parrocchia sugli ascendenti del dittatore. Questa inchiesta ha portato ad una prima sorprendente scoperta: il padre di colui che sarebbe definito il "Furer"non si sarebbe chiamato Hitler ma Alois Schicklgruver, un cognome che sarebbe stato di pesante remora all'avvenire politico del figlio se le cose non fossero poi andate diversamente. Un "heil Schiklgruver!" Al posto del trisillabbico "Heil Hitler!" Avrebbe rischiato di trasformare il saluto obbligatorio dei nazisti in una specie di buffo e interminabile scigninguagnolo. Alois Schicklgruver nasce dunque nel 1837, undici anni prima che Carlo Marx firmi quel manifesto dei comunisti di cui avrebbe dovuto occuparsi animosamente suo figlio. Nasce in un piccolo centro dell'Austria, in un clima ancora feudale in cui si conserva un religioso rispetto per le gerarchie sociali e dove, senza possibilità di equivoci democratici, un signore e una signora è un servo o una serva. E Alois Schicklgruver è, ahimè, il figlio di una serva. E' un figlio tardivo, nato da una donna di quarantasei anni Maria Schicklgruver, al quale il destino ha giocato un brutto scherzo perchè oltre a farle dono di un bambino non sollecitato in un età non più primaverile, non le consente neppure di andare orgogliosa di questa maternità perchè il padre del neonato non ha un nome. O, meglio, il suo nome è gelosamente protetto dalla paura dello scandalo perchè -terzo e ancor più pesante colpo basso della sorte - la matura fantesca è stata per così dire, sorpresa nella sua debolezza da un ragazzo diciannovenne, figlio appunto dei signori Frankenberg, la famiglia ebrea presso la quale Maria prestava la sua modesta opera. Di qui si dedurrebbe, con naturale evidenza, che Adolfo Hitler avrebbe avuto le sue ancestrali gocce di sangue ebreo. Fu questa la romanzesca origine del padre del terribile Adolfo? Tutto quello che si sa di certo e che più tardi Maria Schicklgruver si sposò con il signor J. G. Hiedler che riconobbe e legittimò il figlio, ma lo fece soltanto trent'anni dopo la morte di Maria, circostanze che inducono positivamente a pensare che egli non ne fosse il padre. Un'altra suggestiva tesi è quella secondo cui Alois sarebbe stato il figlio del fratello minore di Jhan George Hiedler. Questo fratello minore che aveva contratto matrimonio una decina di anni prima della nascita di Alois si chiamava Giovanni Nepomuceno Huttler, cioè rispettava una grafia dei propri cognomi diversa da quella del fratello ma non impossibile in quel tempo in cui i documenti anagrafici erano affidati, più che a delle carte, ad un' arbitraria traduzione orale. Giovanni Nepomuceno sarebbe riuscito dunque a convicere il fratello ad adottare Alois quando questi aveva ormai quarant'anni e sarebbe stato comunque solo allora, nel 1877, che costui avrebbe ricevuto quel cognome di Hitler destinato a irradiare tanta torva notorietà. Come nacque dunque il padre di Hitler? Figlio di fuggevoli amori ancillari di un giovanottello ebreo dotato di un mediocre senso estetico o frutto di una relazione alla quale si mescola ugualmente lo scandalo se è valida l'ipotesi di questo fratello che avrebbe coperto le malefatte dell'altro?

Perchè le dettero una pensione?
 Perchè la ospitarono in casa? 
Forse per coprire uno scandalo...

La tesi della domestica e del padroncino, così piena di suggestioni e di colpi di scena di un romanzone naturalista dell'altro secolo, è la più piccante, ma rischia anche di essere la più valida. Tutto quello che si sà storicamente - una storia che si appiglia a pochi ingialliti documenti municipali e ad un registro parrocchiale vergato con la penna d'oca - è che Maria Schicklgruber  lavorò effettivamente presso i signori Frankenberg di Graz i quali per quindici anni, le versarono poi una rendita molto simile ad una delle moderne pensioni alimentari, senza altra giustificazione di quella, ufficiale, della loro generosità. Ma se si colloca la circostanza nel suo tempo, cioè nella prima metà del secolo scorso quando qualsiasi concetto di protezione sociale o di pensione era di là da venire, la cosa appare decisamente singolare. Tanto più se si aggiuge che l'ex-domestica potè beneficiare dell'abbaino di casa Frankengerg dove visse col marito, quel Johan George Hiedler che aveva una deplorevole inclinazione, si dice, per l'acquavite.
Ma a parte queste ricerche avventurose sui più specifici ascendenti di Hitler, a parte le debolezze di sua nonna e quella ramazza che rappresentò evidentemente il suo unico blasone, se si vuole considerare la cosa sotto il profilo dell'etnologia ecco ritornare il sospetto che Hitler non discendesse in linea diretta da Sigfrido.
Il cognome Hitler, infatti, nelle sue varianti di Hiedler, Huttler, Hydler e Hytler è largamente rappresentato in Austria, nella Boemia e nella Moravia, in Galizia e nella Bucovina. Lo portano persino degli ebrei e non è detto che qualche Hitler non sia finito nei forni crematori di Auschwitz.


lunedì 25 gennaio 2016

COSIMO IL VECCHIO " I MEDICI FIRENZE "



 SECONDA PARTE 










QUEL PICCOLO BORGHESE  " COSIMO de MEDICI "




Cosimo nel celebre ritratto del Pontormo
 Con i suoi giuochi di banca, Cosimo ammasserà una considerevole fortun che servirà alla sua ambizione. 
Suo padre, capo della fazione popolare dei Guelfi Bianchi, aveva aspramente lottato contro il patriziato fiorentino. Cosimo stesso era stato arrestato poi rimesso in libertà per intervento dei veneziani, ma con ordine di esilio, e richiamato in seguito, nel 1434, grazie ad un mutamento completo nelle elezioni. Quando il primo gennaio del 1435,  fu messo a capo dello Stato aveva quarantasei anni.
Padrone del potere, non se lo lascerà più scappare.  Quarantasei anni: più ingenio che scrupoli; molto buon senso, molto pratico negli affari. Sostenuto dell'eccellente amministrazione della sua considerevole fortuna, Cosimo porterà ai sette cieli la prosperità della famiglia, ma per le vie pratiche. Diceva all'altro grande mercante Luca Pitti, che vedeva in preda ad ambizioni avventurose: " Voi correte dietro all'infinito, io vado verso finito; voi cercate di appoggiare le vostre scale alla volta celeste, io le appoggio al suolo, per non rischiare di cadere a terra". 
Cosimo estese le sue relazioni commerciali fino in  Estremo Oriente. 
Cosimo il Vecchio sulla mula bruna, dettaglio degli affreschi di Benozzo Gozzolini nella Cappella dei Magi, Palazzo Medici Riccardi, Firenze ( al suo fianco il figlio Piero il Gottoso, padre di Lorenzo il Magnifico )  

Le succursali della sua banca si moltiplicarono da Bruges al Cairo; aprì crediti a principi ed a re. Il papa come pegno delle somme che il Fiorentino gli ha prestato, deve mettere nelle mani del suo creditore la città di Assisi, una delle più potenti piazzeforti.
La statua di Cosimo de Medici nel cortile degli Ufizi a Firenze
Il banchiere arricchito governa Firenze per mezzo dell'opinione pubblica. Al potere, rappresenta la reazione popolare contro il patriziato. Il suo trionfo è, per i suoi partigiani, una vendetta lungamente attesa. La benevolenza che egli dimostra diventa per lui un costante sostegno, che egli conferma rendendo alla patria un preziosissimo servizio: la stabilità del governo e della politica, dopo tanti disordini, incoerenze, agitazioni sterili che eran state per Firenze un vero flagello. Ma al governo, Cosimo non ammette la minima opposizione. Una dozzina delle principali famiglie fiorentine, viene esiliata; tutte le cariche pubbliche sono affidate ad amici o clienti. Per il resto, Cosimo sà tenere a bada i Ghibellini, facendo funzionare a suo modo i tribunali che sono ai suoi ordini. Per giunta, Cosimo ha l'abitudine di vincolare, per mezzo di molteplici ramificazioni, i propri interessi ai quali dei suoi concittadini, di modo che il commercio fiorentino non vede che per gli occhi dei Medici, a tutto il suo giovamento. Nonostante l'enorme ricchezza personale, nel pieno esercizio della sua potenza, Cosimo segue una sua teoria di vita semplicissima. Quel piccolo borghese che trotterella per le strade di Firenze, vestito come un contadino, è potentissimo Cosimo dei Medici. Dunque è in tutto, nella politica generale e nei minuti fatti dei giorni, la sua volontà è sempre presente; ma non si mostra mai di  persona. Tiranno onnipossente, senza mandato; liberale senza generosità, usa forme concilianti senza mai credere in ciò che vuole; magnifico con gli amici, spietato con gli avversari, davanti ai quali il suo odio non si placa mai, anche se vinti. Li fa esiliare e quando stà per giungere il termine della loro pena, la fà posdatare. E se gli esiliati hanno ottenuto l'appoggio di postenze straniere, con la promessa di far aprire davanti a loro le porte della patria, Cosimo li dichiara deceduti da ogni diritto di cittadinanza e ordina la confisca dei loro beni. Per giustificare la sua condotta, a coloro  che gli parlano di tolleranza e di libertà risponde: "si, si, ciò che dite è bellissimo: ottimi principi! Ma non si guida un popolo a furia di pater noster". 


.....continua....

mercoledì 20 gennaio 2016

COSIMO IL VECCHIO " I MEDICI DI FIRENZE "


 IL vecchio Cosimo permise che la famiglia Medici iniziasse quella straodinaria ascesa che la fece definire, da Macchiavelli,
 una 
" nobilissima famiglia popolare "
  
I Medici, campagnoli agitati originari di  Mugello, vennero a stabilirsi  in città fin dal XIII secolo per dedicarsi all' industria o al commercio con le risorse che la vendita dei loro beni avrebbe procurato.
Cosimo il Vecchio in mezzo a filosofi e artisti (di G. Vasari nel palazzo vecchio di Firenze )
Brunelleschi e Ghiberti presentano a Cosimo il modello della Chiesa di S. Lorenzo (G. Vasari ).
Cosimo parla con Santi da Poppi. - A destra: Cosimo nel noto ritratto del Pontormo.
In seguito, quando si saranno conquistati un posto preminente, alcuni storici scopriranno loro origini più gloriose.Alcuni sostengono che un prode, tipo Orlando o Rinaldo,avrebbe vinto il gigante Mugello, per cui Carlo Magno avrebbe dato loro per insegna le sei palle rosse in campo d'oro che saranno, poi, lo stemma di famiglia, altri, invece, che le sei palle rosse rappresentavano, nell'arma  dei Medici. Certe pillole farmaceutiche in ricordo dell'avo speziale. Stà di fatto, tuttavia, che queste pillole o palle, come vengono chiamate in Italia, daranno il nome ai partigiani dei Medici, i Palleschi, quando la famiglia avrà in pugno il partito popolare, di parte guelfa, i Popolani, nella lotta secolare contro i Grandi, di parte ghibellina. Agli inizi del XV secolo la famiglia segue ancora la corrente popolare, ma con una fortuna finanziaria assai accresciuta. Ha esteso la sua attività al commercio del danaro: i Medici sono diventati grandi banchieri, e la loro attenzione, ora, è rivolta alla vita pubblica. Colui che portò la casata ai più alti fastigi fu Cosimo, detto il Vecchio, per distinguerlo dal pronipote Cosimo, primo duca di Toscana. E' una delle più interessanti figure della storia. Senza titolo, con la sola potenza della sua autorità personale, Cosimo il Vecchio fu, per trent'anni (1434-1464), il padrone incontrastato della città, reicarnazione dei tiranni che dominarono le antiche cittadinanze. Lo Stato fiorentino non era limitato alla sola città ma si estendeva sulla maggior parte della toscana e sulla città di Pisa, l'antica rivale, alla quale i Fiorentini aveveno, finalmente, imposto la loro sovranità. Sulle rive dell'Arno, Cosimo era conosciuto come "il grande mercante". Alla sua morte, sarà ufficialmente salutato col titolo di "Padre della Patria". In una cronaca del tempo si legge: "Cosimo era tutto, in Firenze; senza di lui, Firenze era nulla". Enea Silvio Piccolomini, divenuto Papa Pio II scriveva a Cosimo: "tu sei l'arbitro della pace, della guerra e della legge. Per essere re, non ti manca che il nome". Quel grande artista che fu Venozzo Gozzolini lo ha coperto da una lunga veste nera, con in testa un berretto da scrivano, sicchè lo si direbbe un impiegato degli Uffizi. In questa acconciatura, Benozzo l'ha rappresentato due volte: una prima, verso il 1460, nella sua mirabile cavalcata dei re Magi, nella cappella Riccardi di Firenze; l'altra, una quindicina d'anni più tardi, nei suoi famosi affreschi del camposanto di Pisa. Aveva un espressione borghese, bonacciona ed astuta, che manifestava finezza, scaltrezza e familiarità. La persona esile si era certo incurvata per le lunghe ore passate a rivedere i conti. Cosimo difettava tanto di signorilità, quanto di bellezza; grave in compagnia, sobrio nella conversazione, rispondeva sempre a monosillabi, o con un cenno della testa e talvolta con aforismi o strane frasi, nelle quali non si capiva nulla. "Conosce le persone solo a guardarle in viso", dissero di lui. Alla tribuna, non era oratore brillante, ma piuttosto un conversatore dalla logica sottile, dalle sinuosità inattese, dalle uscite maliziose, con frasi a volte d'una limpidezza tutta popolare, che convinceva senza argomentazione. Ma nella vita quotidiana, era grave, nullo lo divertiva, ne i giocolieri, ne i buffoni. Gli piaceva giocare a scacchi, curare la sua vigna, zappare nel suo orto.

Fine prima parte
continua...

 



martedì 19 gennaio 2016

BEATRICE E ISABELLA D'ESTE






Ludovico Sforza, detto il Moro per il colore scuro della sua carnagione e dei capelli, aveva sposato Beatrice d'Este, una delle più graziose, colte ed elegati dame del suo tempo




  Beatrice e Isabella
d'Este (terza ed ultima parte)







 Isabella non ha nulla da temere benchè non più giovane a Parigi - dove si è recata proprio allora e di dove le donne dei Gonzaga le scrivono descrivendole tutte le magnificienze della cognata, - quando passa per le vie, tutti si voltano a guardarla, e chi l'accompagna assicura che non la credono madre, ma sorella del suo figlio Federico. Già prossima alla sessantina, Isabella ancora dà consigli in fatto di moda e sotto la sua direzione Caterina Cybo e la duchessa di Camerino si fanno fare i loro abiti. Ma, come non vi è magnificienza di vestire senza gioielli, è incredibile la quantità di gioie che facevano parte dei corredi principeschi nel Rinascimento. Basti pensare che, sopra una veste di Ippolita Sforza, v'erano tanto oro e gemme per il valore di cinquemila ducati  

Il famoso dipinto di Leonardo, la dama con  l'ermellino, nel quale si riconosce la figura di Cecilia Gallerini, Senese, di nobile famiglia. Fu una delle amanti di Ludovico Sforza ( detto il Moro )

(da tre a quattro milioni di euro) e Isabella d'Este faceva attaccare cinquecento bottoni d'oro! La Marchesina di Mantova, però, non si accontenta di gemme ricche per se stessa,  essa le vuole con teste in opera d'arte e, ai suoi orafi maestri di cesello, suggerisce il modo di legarle e financo i disegni delle incisioni. Prediligie gli smeraldi e possiede il più bello dell'epoca, ma il poeta Trissino la descrive in veste di velluto nero carico di mirabili fibbie d'oro con, al sommo della fronte, un "fiammeggiante" rubino; perle e rubini l'adornano nel ritratto del Tiziano ma, più preziosa di ogni gioiello e a lei più cara, è la mirabile medaglia con l'effige sua giovanile, contornata dal nome Isabella in lettere di diamanti, eseguita da Gian Cristoforo Lombardo. Tanto bisogno di lusso e sete di bellezza dovevano purtroppo metterla nell'occasione di fare debiti, perchè tutti, antiquari, orefici, mediatori, le offrivano cose bellissime, di reputati artisti e lei non resisteva mai alla tentazione di acquistarle. Quando l'oreficie Pagano di Venezia deve avere dai Gonzaga ottomila ducati, il marchese gli cede una possessione, col patto che, al pagamento dei debiti, gli venga restituita. Per riscattarla più presto, Isabella scrive al Doge di Venezia. E tuttavia gli storici dicono che non fu cattiva amministratrice e che, nonostante l'eccessiva libertà di spese, essa non mancava di una certa misura e accortezza che non avevano altre principesse del suo tempo, e che , nelle frequenti asse  nze del marito, seppe difendere lo stato. E poi, quelle gioie a lei tanto care, con quale bellissimo slancio non è essa capace di offrirle al marito perchè faccia fronte alle spese del cardinalato di Sigismondo Gonzaga! E con quanta generosità per soccorrere le famiglie degli appestati, nel 1528, ella non esita a impegnare una delle sue collane! In Isabella d'Este si comprende veramente, insommo grado, quelle contraddizioni proprie dei signori del Rinascimento, per cui, in un'affascinate contrasto di frivolezze e di cultura, ella visse "virilmente operosa e femminilmente gaia".