LA CIVILTA' DEL RINASCIMENTO IN ITALIA LO STATO COME OPERA D'ARTE TERZA PARTE #ELFORNESO

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 I FASTI DEL RINASCIMENTO
" CERTOSA DI PAVIA E IL DUOMO DI MILANO "

Il fasto stesso ed il lusso, con il quale i principi cercavano forse non tanto di  soddisfare la propria vanità, quanto d'impressionare la fantasia del popolo.
Guai se un signore sorto da poco capita tra le loro mani, come fu il caso del nuovo arrivato Doge Angelo da Pisa  (1364), che usava uscire a cavallo con uno scettro d'oro in mano, e, tornato a casa, si mostrava dalla finestra  tra cuscini e drappi ricamati in oro, facendosi servire in ginocchio quasi fosse un Papa o un Imperatore.

 IL DISPREZZO DEI FIORENTINi

 Spesso i vecchi fiorentini assumono un tono elevato e serio.
Dante intende e caratterizza egregiamente il lato ignobile e volgare della cupidigia e dell'ambizione  dei nuovi principi. Il castello della tirannide s'immagina isolato riboccante d' insidie e di carceri, vero ricettacolo di miserie.
Altri predicano sventure a chiunque si avvicini o serva il tiranno, che alla fine trova degno  lui stesso di compassione, costretto, com'è, ad odiare tutti i buoni e gli onesti, a non fidarsi di nessuno e a leggere ad ogni momento in volto ai suoi sudditi, la speranza della sua caduta.
Tuttavia non si mette in rilievo ciò che costituiva il contrasto più grande  tra le città libere e i principati: Firenze si adoperava allora a promuovere il maggior sviluppo possibile dell'individualità, mentre i tiranni non davano la possibilità di esistere e di affermarsi, il controllo delle singole persone, fino al sistema del passaporto era rigorosamente esercitato.
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La paurosa atmosfera di questa esistenza, negazione di Dio, agli occhi dei contemporanei prendeva un aspetto ancora più speciale per le superstizioni astrologiche e per l'eimpietà di taluni fra quei tiranni.
Quando l'ultimo dei Carrara non fu più in grado di presidiare le mura di Padova, spopolata dalla pestilenza e assediata dai Veneziani (1405), gli uomini della sua guardia lo udirono spesso nel silenzio  della notte invocare il demonio, perché lo uccidesse.

 I VISCONTI BERNABO' 


Bernabò, nacque a Milano, figlio di Stefano Visconti e di Valentina Doria, figlia di Bernabò Doria, figlio a sua volta di Baranco Doria.Nel 1340 Bernabò, con i fratelli Mattteo e Galeazzo, si uni' alla congiura di Francesco Pusteria contro lo zio Luchino Visconti
 Il tipo più completo e più istruttivo di questa tirannide del XIV secolo  si ha indubbiamente nei Visconti di Milano, dalla morte  dell'arcivescovo Giovanni (1354) in poi.
In Bernabò per primo si riscontra una indiscutibile somiglianza di famiglia con i più feroci imperatori romani: l'affare di stato più importante è la caccia del cinghiale del principe: chiunque si renda negligente al riguardo, è messo a morte fra i tormenti:  il popolo impaurito deve nutrire i suoi  cinquemila cani da caccia, sotto la più stretta responsabilità per la loro incolumità e salute.
Le imposte vengono percette nei modi più odiosi che si possa immaginare: sette figlie ricevevano una dote di 100000 fiorini d'oro ciascuna, e un enorme tesoro si trovava nelle mani del principe.


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L'ufficio dei passaporti in Padova, verso la metà del XIV secolo 
si trovava indicato con l'espressione, quelli delle bullette.
Nell'ultimo anno di regno di Federico II, 
quando vigeva il più rigido controllo personale,
l'istituzione dei passaporti doveva già esistere nel suo pieno sviluppo. 



Alla morte di sua moglie nel (1384), Bernabò fece una notificazione ai sudditi, intima che,come altre volte loro parteciparono alle gioie della loro signora, così ora devono dividere il dolore con lui e quindi portare il lutto per un intero anno.
Fu in quel periodo che il nipote  Giangaleazzo con un colpo di mano
nel (1385)  prese il potere nelle sue mani, con una di quelle trame che fece tremare il cuore agli storici pù tardi.

Giangaleazzo


In Giangaleazzo si scopre quella mania di grandezza propria dei tiranni.
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Spese 300000 fiorini d'oro in gigantesche opere di arginatura, per poter divergere a suo modo il Mincio da Mantova e il Brenta da Padova, e togliere così ogni mezzo di difesa a queste due città, aveva anche pensato ad un prosciugamento delle lagune di Venezia. Fondò la Certosa di Pavia  il più grande di tutti i conventi, il Duomo di Milano, che in grandezza e bellezza, superava tutte le chiese della cristianità, e forse anche  il palazzo di Pavia, cominciato da suo padre Galeazzo e da lui terminato, era la più grande e splendita residenza principesca che  ci fosse in Europa. In questo palazzo fece trasportare la sua celebre biblioteca e le grandi collezioni di reliquie sacre, nelle quali lui aveva una fede particolare.
Con tali idee sarebbe strano che in politica non avesse  teso le mani alle più alte corone.
Il re Venceslao lo fece duca nel (1395), ma lui pensava solo al regno di tutta Italia o alla corona d'imperatore quando si ammalò e morì nel (1402). Si dice che tutti i suoi Stati messi insieme gli fruttarono in un anno, oltre le rendite ordinarie di un milione duecentomila fiorini d'oro, altri ottocentomila di sussidi straordinari.
Dopo la sua morte il dominio che aveva messo in piedi, andò a pezzi, riuscirono appena a conservare le provincie più vecchie che componevano il suo regno. Chi può dire che cosa sarebbe diventato il figlio Giovanni Maria (morto nel 1412) e Filippo Maria (morto nel 1447), se fossero vissuti altrove e con altre tradizioni di famiglia? Ma, come eredi di questa casa, essi ereditarono anche l'enorme cumolo di scelleratezze e vigliaccherie che erano andate ad aumentare di generazione in generazione.
 



                       







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